Comunicato stampa

Il fenomeno “nimby” non è nel nostro giardino

In un articolo del Sole 24 Ore della scorsa settimana si citano i progetti di Bio-digestione anaerobica di Pesaro (Talacchio)  e Jesi,  due tra i 160 tra gli impianti che, dal Piemonte alla Sicilia, sarebbero bloccati dai comitati “nimby”, per ragioni che vanno dall’inquinamento, agli odori, dalla compromissione del paesaggio  a danni nei confronti dell’agricoltura di qualità o del turismo culturale.

Utilizzare la categoria “nimby” per categorizzare qualunque opposizione a progetti oltre che scorretto è pure falso; l’acronimo sta per “not in my back yard”, ovvero “non nel mio cortile”, viene usato per screditare qualunque oppositore ed indica la contrarietà a progetti basata esclusivamente sul fattore localizzativo, di difesa di uno specifico territorio, mentre le realtà dei comitati sono molto più variegate e le criticità evidenziate spesso di più ampio spettro e multifattoriali. Inoltre, spesso il NO è ben più radicale di quello che si ferma strettamente alla dimensione localizzativa e le argomentazioni dimostrano la non necessità di costruire ancora mega-impianti, evidenziando dei SÌ ben più importanti a progetti meno impattanti e migliori, nel nostro caso, ad esempio, orientati a progetti aerobici di piccola e piccolissima scala.

Sembrerebbe, dall’articolo, che in Italia ci sia una emergenza di impianti che trattino la parte putrescente e verde dei rifiuti domestici e che la paura o l’ignoranza dei cittadini blocchino dei progetti indispensabili per ricavare energia e chiudere in maniera sostenibile il ciclo dei rifiuti.

Ma non è così che stanno le cose. Gran parte dell’umido, in realtà, viene trattato in impianti esistenti, anche se in alcuni casi deve fare centinaia di chilometri, con aggravio di costi e di inquinamento. Ma allora perché questo proliferare di progetti di impianti di compostaggio prevalentemente anaerobici? Perché è partita la gara a chi arriva prima a beneficiare dei lauti incentivi europei per la produzione di biometano da rifiuti. L’economia circolare, e la produzione di energia a impatto zero, sono lo specchietto per le allodole per nascondere il business. Per questo in tutta Italia è un fiorire di progetti su iniziativa privata (o pubblico-privata) per costruire mega impianti, senza che sia minimamente considerato il reale fabbisogno.  Nelle Marche, ad esempio, a fronte di un fabbisogno impiantistico di 76 mila t. sono stati avviati procedimenti per autorizzare ben 7 progetti per un potenziale complessivo di 400 mila t.

L’assenza di Piani d’Ambito (ovvero di una programmazione pubblica a livello provinciale) favorisce il “far west” della caccia agli incentivi.  Con la programmazione partecipata, attraverso lo strumento della V.A.S. prevista per i Piani, i cittadini potrebbero dire la loro su dimensionamento, localizzazione, e tecnologia impiantistica, e aiutare i decisori a trovare la soluzione migliore dal punto di vista ambientale, economico, sociale e della salute. Pertanto, il problema, come spesso accade, sono gli amministratori locali che non fanno bene il loro mestiere.

Riguardo alla tecnologia, anche Zero Waste Italy, Zero Waste Europe e ISDE (l’autorevole associazione dei medici per l’ambiente) nel corso degli anni, pur non schierandosi pregiudizialmente contro la digestione anaerobica, ne hanno rilevato le criticità e l’hanno ammessa come trattamento secondario, residuale, con precise prescrizioni e limitazioni, indicando quale via prioritaria quella della massimizzazione del recupero di materia, possibile soltanto tramite compostaggio aerobico. Considerando però il recente aspetto del business legato all’incentivazione, che distorce la realtà del trattamento dell’organico e del verde, ISDE ha assunto una posizione (https://www.isde.it/isde-replica-al-presidente-di-legambiente-ci-si-confronti-con-i-dati-scientifici-e-non-con-demagogia/) ancor più critica rispetto a questa tecnologia, molto simile a quella portata avanti dai comitati di cittadini.

Inoltre, esistono anche articoli scientifici che sottolineano l’importanza di rivedere le formule con cui si calcolano i benefici in termini di risparmio di CO2. In un recente articolo di ingegneri ambientali dell’Università di Reggio Emilia (https://www.ingegneriadellambiente.net/ojs/index.php/ida/article/view/257), si dimostra che se si considera il biometano prodotto quale sostituto del gas naturale fossile nella rete di distribuzione già esistente, realizzando ricariche di vetture già alimentate a metano (scenario più verosimile rispetto a quello in cui si prevede la sostituzione di vetture a benzina/gasolio in auto a metano) il vero risparmio di CO2 sarebbe dimezzato, rendendo di fatto il biometano prodotto da FORSU insostenibile ai fini dei benefici degli incentivi fiscali e inutile in termini di vantaggio ambientale.

Fano, 16/02/2021

Il Consiglio direttivo